mercoledì 24 febbraio 2016

Il sapore del successo

Il sapore del successo: recensione del film culinario con Bradley Cooper e Sienna Miller

Uno dei motivi per cui il lungimirante e scaltro Harvey Weinstein ha rimandato l’uscita de Il sapore del successo – alias Chef e poi Adam Jones prima di diventare definitivamente Burnt – sono state alcune recensioni pubblicate anzitempo nelle quali il non eccelso gradimento dell’avventura londinese di un cuoco un po’ maudit era stato manifestato attraverso l’uso spasmodico di similitudini culinarie.
Quindi, nel rispetto del potentissimo produttore e dell’ottima coppia Bradley Cooper/Sienna Miller, non esprimeremo le nostre perplessità dicendo che il film di John Wells è una pietanza non abbastanza sapida, una maionese impazzita, un soufflé che non è cresciuto al punto giusto o semplicemente un piatto i cui ingredienti non sono bene amalgamati.

No, la caccia alla terza stella Michelin di un ex ragazzaccio che per tenere lontana la bottiglia preferisce sgusciare migliaia di ostriche invece di ricorrere ai 12 passi degli Alcoolisti Anonimi non merita paragoni tanto scontati né un trattamento così inclemente, perché nonostante tutto serve benissimo il suo scopo, anzi i suoi scopi, che sono due: deliziare la vista e stuzzicare la golosità dei maniaci del Food Porn e intrattenere piacevolmente coloro che amano e si riconoscono nelle vicende di redenzione, nei viaggi metaforici e nelle storie che contengono un messaggio, una lezione da tenere presente quando la bilancia dell’esistenza pende inesorabilmente dalla parte del no. L’insegnamento in questione – che suggerisce di non contare unicamente sulle proprie forze ma di cercare aiuto negli altri – forse non è originale, ma non va dimenticato, perché dovunque e comunque l’unione farà sempre la forza.
Poi c’è l’ossessione per la perfezione del personaggio di Bradley blue eyes, che è la grande nevrosi dell’oggi, una fonte di guadagno per moltitudini di strizzacervelli e un viatico per una sicura immedesimazione da parte chi macina cose a 300 all’ora e poi va al cinema.
Il Chris Kyle di American Sniper, inoltre, si destreggia a meraviglia tra i fornelli, e questo aggiunge frecce all’arco del suo chef che è sempre super cool, sia con una giacca di pelle che con la divisa da cuoco, risposta contemporanea (in fatto di appeal) alle uniformi da ufficiale di una volta.
Il problema di Adam Jones, piuttosto, (e del film stesso) è che a un certo punto comincia a prendersi troppo sul serio. Senza invocare al suo posto un Will Ferrell(come fa un critico americano), ci basti dire che avremmo voluto fra le sue caratteristiche una minima dose di quell’ironia che accompagna le scene introduttive. In fondo, Il sapore del successo comincia come un divertente heist movie, ne quale il bad-ass di turno recluta i suoi complici/scagnozzi. Qui gli aiutanti, che vengono dai quattro angoli d’Europa, fanno bene la loro parte di spiritosa Armata Brancaleone, poi però la macchina da presa li abbandona, concentrandosi quasi sempre solo sul protagonista. Abbiamo detto "quasi", perché fra le “figurine” Omar SyRiccardo Scamarcio e Matthew Rhys si fa strada un misuratissimo e gentile Daniel Brhuel, attore superbo che continua fortunatamente a fare capolino in tante produzioni nordamericane.
SiennaSienna se la cava, ma la suos-chef che interpreta è un personaggio di cui è difficile capire azioni, ragioni, innamoramenti e remissività.
Per fortuna, a questi problemi sostanzialmente di sceneggiatura – fra cui annoveriamo l’inutile aggiunta di sottotrame che non vengono sviluppate – ripara in qualche modo l’abilità con cui il regista filma la vita di cucina, muovendosi freneticamente fra pentole e coltelli e concedendosi primissimi piani dei manicaretti serviti ai clienti del Langham Restaurant. Che poi ci vada o meno di sfamarci con questi "piattini miserelli" è un discorso da fare in altra sede, maWells dimostra comunque perizia e attenzione al particolare, rendendo lo spettatore non abituato ai cooking show partecipe dell’isteria mista ad ansia di prestazione che caratterizza la preparazione di un grande piatto. Così facendo cavalca l’onda delle mode contemporanee, appagando il nostro desiderio un po’ malato di reality, ma dimenticando di sottolineare, salvo in un paio di momenti, la funzione più importante che il cibo dovrebbe avere: quella di riunire, aggregare, creare una condivisione.
Per noi condivisione fa rima con garbo e con lentezza, con la calma ritualità de Il pranzo di Babette e di Big Night. Ma si tratta di film che sono stati girati negli anni ‘80 e ’90, quando nelle cucine non regnavano prime donne aggressive e chi alzava la voce veniva messo a lavare i piatti.
Fonte: comingsoon.it

mercoledì 3 febbraio 2016

REGRESSION


A sei anni da Agora riecco Alejandro Amenàbar, ma il ritorno al thriller mostra un po' di ruggine…

Aveva parlato di uguaglianza tra i sessi nel 2009 e di eutanasia nel 2004, ma sono quindici gli anni che ci separano dall'inquietante The Others con il quale Alejandro Amenàbar si era presentato al mercato statunitense. Il ritorno al thriller di Regression ripropone alcune delle sue atmosfere e ossessioni, ma il lungo attendere un tema che lo spingesse ad affrontarlo sembra quasi aver appesantito lo sviluppo e finito per confondere le idee allo stesso autore.

Che voleva dichiaratamente realizzare un film "sul diavolo", e sui cliché che gli ruotano intorno, evitando le stesse banalità sul satanismo che lo avevano annoiato durante la fase di ricerca. E per quanto non sia riuscito a restarne del tutto immune, soprattutto per quel che riguarda il tentativo di disarmare i meccanismi con cui si crea il terrore, sono altri gli aspetti interessanti che emergono dalla vicenda.

I definitiva un film sugli errori. Che tutti (inclusi Emma Watson e Ethan Hawke), a un certo punto, fanno. Nel film e nella vita. Sulle ansie di perfezione che derivano dalla paura di farne, o che gli altri ne facciano. Le conseguenze della durezza nel giudicarsi e della facilità di giudicare, proprio affidandosi a quegli stereotipi di cui si parlava o magari a procedimenti che non siamo abituati a mettere in discussione.

Quello della 'regressione' psicanalitica, per esempio, alla base del film e ormai caduto in disgrazia, ma che negli anni '90 - quando la storia è ambientata (anche dal punto vista estetico, seppur denunci una forte fascinazione per i '70) - poteva porre le premesse per un thriller nel thriller come questo. Nel quale però può risultare complicato districarsi, trovare il bandolo della matassa, il vero percorso immaginato dal suo creatore. Che forse indulge troppo nell'accumulare possibilità narrative e potenziali colpevoli, creando i presupposti per mantenere la tensione fino alla fine, ma anche lasciando il dubbio di essersi affidato a una costruzione più opportunista che consapevole.

Fonte: film.it