domenica 29 maggio 2016

I miei giorni più belli




Paul Dedalus è un personaggio già transitato nel cinema di Arnaud Desplechin. Con quel nome che suona bene in qualsiasi lingua, così come nelle pagine di James Joyce, è un Ulisse che ha sempre saputo che sarebbe tornato un giorno dai suoi viaggi, alter ego del regista francese che ne I miei giorni più belli è un Antoine Doinel che ripercorre tre tappe decisive della sua formazione, della sua giovinezza.
Nella precedente apparizione, in Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle), nel 1996, Dedalus era un trentenne assistente universitario a Parigi, incapace di portare a termine la sua tesi e la relazione con la fidanzata di dieci anni, Esther. Ne I miei giorni più belli li ritroviamo all’inizio del loro rapporto; non che a Desplechin interessi sviluppare un percorso coerente fra i due film. Non più nel presente, ma in un passato che non diventa mai nostalgico, in quanto ancora vivido e a tratti cocente come un continuo rimpianto, Paul rievoca tre momenti chiave: l’infanzia nella periferica Roubaix, il rapporto difficile con la madre depressa, il fratello e la sorella, oltre a un padre sempre in giro per lavoro per mantenere la famiglia; la Russia, primo viaggio del Dedalus Ulisse, prima avventura quasi da film di spionaggio, in piena guerra fredda, sdoppiandosi letteralmente, regalando la sua identità a un ulteriore alter ego; infine Esther, l’amore totale, la donna a cui tenere più della propria stessa vita, un sentimento tanto totalizzante da divenire utopico, in cui i due non riescono mai a “rimettersi veramente dal peso di stare insieme”.
Sono tre momenti dalla durata ben diversa, con l’amore per Esther che prende il sopravvento sul resto, quando Paul lascia Roubaix per studiare da un’antropologa adorata, arrangiandosi senza un soldo, dormendo sui divani dei suoi compagni di università, senza arrendersi di fronte alle difficoltà di un percorso di studi complesso. Le affronta con la stessa sfrontatezza con cui ha sedotto Esther, continuando a portare avanti il rapporto, pure nelle difficoltà della distanza. Un rapporto pieno di pathos e disperazione, leggero come un sorriso per le rispettive scappatelle sessuali e pesante come le lacrime al telefono o la pioggia di un inverno che sembra allontanarli definitivamente. A unirli la passione sfrontata che non fa mai un passo indietro per paura della reazione di chi c’è intorno, che si nutre delle scoperte fatte insieme, delle fragilità condivise, come la disperazione di un attacco di panico per la paura della morte.
Paul ha una sua forma di maturità precoce, che lo porta a ritenere una fine logica il fatto che la madre si sia suicidata quando lui aveva 11 anni, nascondendo una paura tremenda di aver ereditato la stessa disperazione, quella che lo porta a vivere con tristezza la caduta del muro di Berlino, perché la vede come la fine della sua infanzia. Nel raccontare il momento del passaggio all’età adulta Desplechin regala un magistrale film, doloroso e febbrile, sull’istinto a fuggire dall’impietosa unidirezionalità del tempo ancorandosi ai ricordi, declinati come impossibilità di dimenticare. Toccante e universale, racconta di famiglie che si scelgono, di amicizie insidiose come l’amore, di orfani in cerca delle parole giuste; perché è un film di parole, di libri letti, di alfabeti da scoprire.
I miei giorni più belli, a cui preferiamo il titolo originale che suona Tre ricordi della mia giovinezza, viene raccontato attraverso una cornice che ci propone il protagonista - ora interpretato da Mathieu Amalric - sul punto di lasciare dopo molti anni le repubbliche asiatiche ex sovietiche, per tornare a Parigi con un incarico al Ministero degli esteri. Se Amalric incarna con maestria il peso di un uomo gravato da un passato che non sparisce, sono i due ragazzi, Quentin Dolmaire e Lou Roy-Lecollinet, la meravigliosa scoperta del film.

Fonte: comingsoon.it

domenica 15 maggio 2016

Bourne 5


Matt Damon riprende il ruolo di Jason Bourne nel quinto capitolo della saga nata dai romanzi di Robert Ludlum. Per ora sappiamo che il nemico di Bourne avrà il volto di Vincent Cassel e che la storia intreccerà spionaggio e politica in un mondo in cui il controllo delle informazioni dei governi e il diritto alla privacy dei singoli cittadini sono in aperto contrasto.

giovedì 12 maggio 2016

The Nice Guys


Il buddy movie è una ragione di vita professionale per Shane Black, uno dei maggiori sceneggiatori del genere, vedi Arma letale. Dopo il suo esordio alla regia nel 2009 con il convincente Kiss Kiss Bang Bang con la coppia Robert Downey Jr e Val Kilmer, si affida in The Nice Guys a un nuovo duetto improbabile il compito di girare in tondo per le colline di Los Angeles. I due sono Jackson Healy (Russell Crowe), picchiatore su commissione, e il goffo detective privato Holland March (Ryan Gosling), che dopo essersele date per un po’ si trovano alleati in due casi: alla ricerca di Amelia, una ragazza scomparsa che aveva coinvonto entrambi, e della verità sulla morte di una nota attrice porno. Due casi che non sembrano avere niente a che fare, ma che scopriranno legati strettamente, fra cinema porno, ma con la trama, anzi con l’impegno sociale, e un autorevole mandante ad alti livelli politici che affida a perfidi killer la soluzione della questione, con le buone o con le cattive.
Il film funziona perché funziona la coppia di protagonisti, che mettono a frutto dialoghi frizzanti grazie a un’alchimia non scontata. Il bruto e il sofisticato, il piazzato e lo smilzo, in realtà ugualmente mezzi idioti con cinismo, Gosling e Crowe si danno continui assist in un film pieno di scazzottate vecchio stile, cadute da ogni altezza, gag fisiche alla Peter Sellers. Una formula che si ripete all’estremo, continuando a mescolare pistolettate e risse, coinvolgendo più o meno sempre gli stessi personaggi in varie location. Fortuna che in loro soccorso arriva la mente, la tredicenne figlia del personaggio di Gosling. Parlando di femme fatale, Kim Basinger ritrova Crowe in una cornice simile, ma vent’anni dopo e virata al parodistico, rispetto al loro precedente L.A. Confidential, tratto da Ellroy.
La trama è semplice grimaldello con cui aprire la scatola dei ricordi e proiettarsi alla riscoperta degli archetipi e delle atmosfere del cinema action anni ’70, quello di Arthur Penn o di Schrader, ibridandolo con gli insegnamenti della letteratura hard boiled, quella dell’angeleno Philip Marlowe. Criminali perfidi fra il noir e il cinema di blaxploitation, dark lady senza scupoli, The Nice Guys ci porta in una Los Angeles del 1977 non troppo lontana da quella attuale, in cui le macchine esplodono al primo contatto, i corpi dei protagonisti vengono devastati in ogni modo, ma nessuno muore - o almeno “nessuno soffre troppo” - e le musiche sono un’appassionante giro di jukebox fra il soul e la nascente disco.

venerdì 6 maggio 2016

La canzone del mare





In un'isola sulla costa dell'Irlanda, il piccolo Ben cova risentimento per la sua sorella minore Saoirse, la cui nascita avrebbe (per quel che ne sa) posto fine alla vita della sua adorata mamma Bronagh. Il babbo Conor, devastato dal dolore della perdita della moglie, teme soprattutto una cosa: che la piccola abbracci il destino di sua madre, che come lei era una selkie, cioè una mistica creatura del mare in grado di trasformarsi in foca. Ben comincerà a guardare la sorella in modo diverso, mentre per Saoirse si apriranno le porte di una missione epica...
Tomm Moore, autore nel 2009 del lungometraggio The Secret of Kells, come questo nomination all'Oscar per il miglior film d'animazione, è un animatore e regista irlandese che ha deciso di dedicare la sua carriera a reinterpretare la tradizione folkloristica del suo paese. Rimanere fedeli alle proprie origini e farsi apprezzare all'estero: Moore è riuscito in una combinazione davvero difficile, forte di una professionalità della confezione e di una solidità artistica non comuni. Dalla direzione artistica alla cura delle animazioni (bidimensionali, a mano libera, rarissime ormai in un prodotto internazionale), Moore dice di guardare alla lezione dell'Hayao Miyazaki di Il mio vicino Totoro, e tecnicamente potrebbe permetterselo, ma non è ancora riuscito ad assimilare il quid del suo mito. Non ci piace costruire una recensione su un paragone, ma dato che in questo caso il paragone è stato suggerito dallo stesso autore, può servirci come utile chiave di lettura.
Mantenere le radici della fiaba animata nel proprio tessuto culturale è qualcosa che accomuna il percorso artistico di Moore e dello Studio Ghibli, ma i film di quest'ultimo hanno equilibri (o affascinanti squilibri) che La canzone del mare sfiora ma non coglie. La percentuale di mistero ed evocativa cripticità di Il mio vicino Totoro è in dosi corrette, mentre in La canzone del mare non tutti i passaggi narrativi della sceneggiatura di Moore e Will Collins sono chiari, ricordando piuttosto opere meno immediate come Il castello errante di Howl: si ha a volte la sensazione che le letture metaforiche, i rimandi, i paralleli tra i personaggi e il mito, le ripetizioni e le digressioni tipiche della fiaba intralcino la scorrevolezza del film, invece di impreziosire e rafforzare l'esperienza.
La canzone del mare è un lavoro davvero incantevole, nello stile visivo, nelle musiche, nella sua ricerca e nella sua delicatezza, ma la sua evidente volontà di creare un'esperienza artistica stratificata non gli permette di spiccare il volo con la naturalezza e l'emozione del sognato Totoro. Se la bussola punta lì, Moore è comunque sulla buona strada.

Fonte: comingsoon.it