mercoledì 29 giugno 2016

Mother's Day




Il giro delle festività annuali americane prosegue per Garry Marshall. Dopo San Valentino in Appuntamento con l’amore e Capodanno a New York, riunisce il suo consueto cast pieno di star nei giorni immediatamente precedenti alla festa della mamma. Sono passati 26 anni dall’apparizione di una giovane e inconsapevole Julia Roberts in Pretty Woman, sempre diretto da Marshall; ora, in Mother’s Day, è una conduttrice di televendite tutto carisma, imprenditrice di un impero di prodotti per le massaie americane. Insieme a lei due quarantenni: Kate Hudson, alle prese con dei genitori profondamente conservatori, incapaci di accettare il suo partner indiano, figuriamoci il legame omosessuale dell’altra figlia; e Jennifer Aniston, in preda a una crisi di autostima dopo essere stata lasciata dal marito, nel frattempo felicemente accasato con una stanga ventenne dalle forme perfette.
Se vi suona già sentita questa situazione, non vi sbagliate. La Aniston ormai sembra essersi ritagliata un ruolo autorironico che ricorda la fine del suo rapporto con Brad Pitt, accasatosi con la più giovane e bella Angelina Jolie.
Garry Marshall a 80 anni prosegue il suo cammino nel cinema al femminile, in cui sarebbe ingeneroso voler ritrovare la carica di rottura esilarante dei suoi successi televisivi di altra epoca, Happy Days e Mork e Mindy. Il suo è il tentativo di conquistare un pubblico, prevalentemente femminile, di non più giovanissime, che possano rincuorarsi nel vedere queste grandi personalità del mondo dello spettacolo alle prese con i loro stessi dubbi e insicurezze. Il filo rosso che lega tutte le vicende è la maternità: quella vissuta, quella nascosta, quella agognata. La famiglia può evolversi, ci dice Marshall, diventando una dinamica fluida in continuo movimento, ma la mamma è sempre la mamma, unica e indivisibile. Come dire, concede da una parte spazio a una visione più vicina all’estensione dei diritti civili dei nostri giorni, mentre dall’altra rassicura il proprio pubblico di riferimento più moderato.
La sua natura di film da laboratorio satura la pazienza dello spettatore; stonano le concentrazioni di ogni possibile declinazione della maternità in così pochi nuclei famigliari, così come gli invariabili luoghi comuni sull’essere donna e single. L’induzione alla lacrima non convince, mentre qualche risata Mother’s Day la strappa, grazie al talento comico di Jason Sudeikis e una Jennifer Aniston saggiamente parca di interventi del chirurgo plastico, con delle forme genuine e tempi comici sempre misurati. Ingessata nelle rigidità del suo personaggio, invece, Julia Roberts, la quale dosa con attenzione da saggia imprenditrice le apparizioni al cinema.

Fonte: comingsoon.it

sabato 25 giugno 2016

Agnolotti Saporiti


Ingredienti per 4 persone
per Condire:
100 gr Milza di Vitello
50 cl Vino Rosso
80 gr Burro
1/2 Bicchiere Olio d'oliva
40 gr Lardo
1 Cipolla
1 Spicchio Aglio
1 Rametto Rosmarino
1 Ciuffetto Cerfoglio
1 Ciuffetto Timo
Sale
Pepe
Noce Moscata
Abbondante Formaggio Parmigiano Grattugiato
per il Ripieno:
300 gr Bietole
Sale
100 gr Prosciutto Crudo
100 gr Formaggio Parmigiano Grattugiato
2 Uova
per la Pasta:
400 gr Farina
Sale
4 Uova
per Stendere la Pasta:
Farina
Agnolotti Saporiti


Preparazione:Preparate innanzitutto il condimento.
Tagliate la milza a pezzetti, dopo averla privata della membrana che la ricopre, e mettetela per 30 minuti a macerare in una terrina, coperta con il vino rosso.
Ponete al fuoco, in una casseruola di terracotta, il burro, l'olio e il lardo tritato; fate rosolare, poi unite un trito di cipolla e aglio, rosmarino, cerfoglio e timo.
Insaporite con una buona presa di sale, un pizzico di pepe e un pochino di noce moscata grattugiata.
Non appena le verdure saranno appassite, adagiate nella casseruola la spalla tagliata a pezzettini, lasciandola rosolare a fuoco moderato.
Unite la milza e, non appena anche questa sarà colorita, versate nel recipiente il vino di macerazione.
Coprite la casseruola e lasciate cuocere per almeno 2 ore, aggiungendo di tanto in tanto, se necessario, poca acqua calda.
Nel frattempo preparate il ripieno.
Mondate, lavate e lessate in pochissima acqua bollente salata le bietole; scolatele, strizzatele, tritatele finemente e ponetele in una terrina insieme al prosciutto crudo tritato, a 100 g di parmigiano e alle uova.
Ora è la volta della pasta.
Mettete la farina a fontana sulla spianatoia, salatela, rompetevi nel mezzo le uova e procedete secondo le indicazioni della ricetta base.
Fate quindi riposare la pasta per 30 minuti.
Non appena la carne sarà cotta, estraetela dal recipiente e passatela al tritacarne.
Unitene un quarto al condimento, che farete cuocere ancora per qualche minuto a fuoco dolce, e la parte rimanente al ripieno, rimestando accuratamente con un cucchiaio di legno.
Dopo aver steso la pasta in una o più sfoglie sottili, fate gli agnolotti.
Cuoceteli in acqua bollente salata, scolateli, quindi conditeli con il sugo e il parmigiano.

Fonte: paginainizio.com

mercoledì 15 giugno 2016

'Gli invisibili', il silenzio di George homeless nella Grande Mela


A poca distanza da Franny, dove era un miliardario, Richard Gere torna in un ruolo all’opposto di quello. L’anziano George è un homeless che si aggira alla deriva per le strade della New York invernale. Non ha dove dormire; se rimedia qualche soldo, lo beve; quanto a sua figlia Maggie non vuole avere nulla a che fare con lui. Malgrado possa usufruire di alcuni servizi sociali, non possiede la documentazione per ottenere gli aiuti a lungo termine. La trama degli Invisibili è tutta qui, ma il cineasta indipendente Oren Moverman sa come farla bastare. Non ricordiamo un altro film che esprima così bene la solitudine, lo smarrimento, la monotonia delle giornate degli “ultimi”. La cinepresa inquadra spesso le peregrinazioni del protagonista - tra ospizi per senzatetto e ospedali - inquadrandolo dietro superfici di vetro, grate e cancelli: come a rivelarne la “trasparenza” agli occhi del mondo. Altrettanto espressivo l’ambiente sonoro, dove il fitto vocio circostante fa da contrappunto al silenzio di George.

Fonte: repubblica.it

venerdì 3 giugno 2016

Güeros



La prima cosa che noti, di Güeros, è la sua messa in scena. Che da nervosissima nella sua sequenza iniziale, muta man mano forma ma rimane sempre incisiva, coraggiosa, originale: soprattutto se consideriamo che il regista del film, esordiente, viene dal mondo del teatro.
D'altronde, appare chiaro fin da subito che questo è un film che vuole surfare su tutte le “nuove onde” che ha a disposizione: da quella francese degli anni Sessanta, fino a quelle più recenti che hanno visto nei Jarmush, nei Kaurismaki, nei Linklater i loro campioni più rappresentativi.
In comune con loro, Alonso Ruizpalacios sembra avere, oltre al bianco e nero elegante (e premiato al Tribeca per la miglior fotografia), l'attitudine distaccata, lenta e surreale con la quale racconta storie che raccontano la realtà per frammenti, per impressioni, senza troppo riguardo per il quadro genere e il “messaggio”, ma forse solo in apparenza.
Non c'è infatti una storia fluida e unitaria, in Güeros: anzi c'è, ma è sminuzzata nei tanti piccoli episodi che lo compongono, nelle tante eterogenee micro-avventure vissute dai suoi protagonisti, nei loro spostamenti fisici e nei conseguenti spostamenti narrativi che ne conseguono. Prima c'è Tomas, adolescente irrequito che la mamma, non sopportandolo più, spedisce a Città del Messico dal fratello universitario. Poi, appunto, c'è Federico, che si nasconde dentro casa col coinquilino Santos, e poi ci sono tutti e tre che, spinti dalla voglia di andare a trovare un vecchio rocker forse in fin di vita, escono e affrontano una piccola Odissea attraverso il mondo complesso e stratificato della megalopoli, senza una vera meta, ma con tante piccole mete diverse, raccogliendo per strada anche Ana, la pasionaria di cui Fede è innamorato.
Ecco che allora Güeros è un film sulla ricerca di un Graal sbiadito dal tempo (il rocker amato dal padre di Tomas e Fede) che è un ritorno alle loro radici, è una storia di formazione che riguarda il fratello più giovane e di evoluzione di quello grande, è una storia d'amore e un ritratto generazionale, un mosaico che mira a dare un'idea di quello che è il Messico di oggi.
Tanta roba, forse anche troppa, che però Ruizpalacios (che a Berlino ha ottenuto il premio per la miglior opera prima) gestisce molto bene: senza tirate, senza eccessi, senza spiegoni né troppi vezzi, surfando morbido sull'onda della sua storia e del cinema, con una nonchalance che non è mai distacco, ma sempre voglia di essere leggeri anche quando le cose si fan serie e potenzialmente pesanti.

Fonte: comingsoon.it