mercoledì 6 luglio 2016

Un mercoledì di maggio


Tra tutti i paesi islamici in cui governo politico e potere religioso sono strettamente intrecciati, l’Iran è sicuramente il più denso di contraddizioni e al tempo stesso il più dinamico, diviso tra un retaggio arcaico di sottomissione della donna e gli indubbi diritti conquistati grazie alle lotte femminili e alle spinte progressiste appoggiate da politici illuminati come il presidente Hassan Rouhani, eletto nel 2013. Nel paese le donne possono guidare e lavorare, moltissime si laureano e si dedicano all’insegnamento, alla medicina e al giornalismo e le famiglie fanno il possibile pur di farle studiare. Ovviamente ci sono ancora ampie sacche di arretratezza e miseria dove i loro diritti vengono calpestati e sopravvivono leggi, come il diritto ereditario, che le penalizzano. L’hijab è ancora imposto per legge, la loro parola in tribunale vale la metà di quella di un uomo, se divorziano e si risposano la custodia dei figli va al padre, se non abbienti sono sottoposti ai poteri spesso arbitrari della famiglia dei loro tutori.
È questo ad esempio che accade a una delle due protagoniste di Un mercoledì di maggio, Setareh, a cui la zia e il violento cugino negano il permesso di sposare l’uomo di cui è innamorata perché questi non è ricco e soprattutto non è in grado di presentarsi con i genitori e di fare “le cose come si deve”, secondo il dettato di rigide norme tradizionali considerate più importanti per il buon nome della famiglia, della felicità di lei. Disperata, la ragazza si sposa di nascosto ma quando è costretta a rivelarlo e cerca di farlo accettare viene picchiata, così come il marito, che rispondendo all’aggressione del cugino finisce in prigione. Per farlo uscire serve l’equivalente di diecimila dollari, una cifra enorme pretesa dalla parte lesa per ritirare la denuncia.
Un’altra donna, Leila, deve invece vedersela coi problemi del marito gravemente malato in seguito a un incidente e bisognoso di una costosa operazione e scopre per caso che l’uomo che potrebbe aiutarla è l’ex fidanzato di un tempo. È intorno a quest’ultimo, Jalal, e all’annuncio da lui pubblicato su un giornale del dono di diecimila dollari a colui o colei che dimostrerà di averne più bisogno, che si intrecciano le loro vite. Una folla enorme si presenta nell’elegante quartiere dove si svolge la selezione, scatenando l’ira dei residenti e l’attenzione della polizia.
La storia procede in modo non lineare e cronologico, come un puzzle – piuttosto semplice a dire il vero – che lo spettatore deve ricomporre per conoscerne premessa ed esito. La miseria e la disperazione di un paese in cui la ricchezza è appannaggio di pochissimi, come avviene anche in molte opulente democrazie occidentali, e l’ingiustizia sociale che espone la maggioranza della popolazione a ricatti, ritorsioni e soprusi, sono al centro del primo lungometraggio di finzione del regista Vahid Jalilvand, documentarista e attore (nel film è il marito malato).
È un cinema quasi neorealista il suo, il cui sincero intento di denuncia si risolve - un po’ goffamente - quando il benefattore spiega le sue motivazioni altruiste ma personali in un drammatico confronto con la moglie. Un mercoledì di maggio parla del bisogno di una persona sensibile di prendere posizione con un gesto eclatante ed estremo, che però è soltanto una goccia nel mare e non può sanare i danni prodotti dall’ingiustizia di un intero sistema sociale. Semmai la rende solo più evidente: come si fa a decidere obiettivamente qual è la situazione più disperata? Non a caso Jalal si affida alla sorte per farlo e il problema si risolve quando una delle due donne è costretta a rinunciare alla cifra messa a disposizione, sufficiente per una ma non per l’altra. Primo ad arrivare in sala dei film che compongono l’interessante e variegata retrospettiva sul nuovo cinema iraniano, voluta da una distribuzione intelligente e di qualità come Academy Two, Un mercoledì di maggio, premio Fipresci alla mostra del cinema di Venezia nel 2015, è forse il meno innovativo dei quattro ma apre uno spiraglio sulla situazione di un paese che ci appare più vicino di quanto pensassimo.

Fonte: comingsoon.it

mercoledì 29 giugno 2016

Mother's Day




Il giro delle festività annuali americane prosegue per Garry Marshall. Dopo San Valentino in Appuntamento con l’amore e Capodanno a New York, riunisce il suo consueto cast pieno di star nei giorni immediatamente precedenti alla festa della mamma. Sono passati 26 anni dall’apparizione di una giovane e inconsapevole Julia Roberts in Pretty Woman, sempre diretto da Marshall; ora, in Mother’s Day, è una conduttrice di televendite tutto carisma, imprenditrice di un impero di prodotti per le massaie americane. Insieme a lei due quarantenni: Kate Hudson, alle prese con dei genitori profondamente conservatori, incapaci di accettare il suo partner indiano, figuriamoci il legame omosessuale dell’altra figlia; e Jennifer Aniston, in preda a una crisi di autostima dopo essere stata lasciata dal marito, nel frattempo felicemente accasato con una stanga ventenne dalle forme perfette.
Se vi suona già sentita questa situazione, non vi sbagliate. La Aniston ormai sembra essersi ritagliata un ruolo autorironico che ricorda la fine del suo rapporto con Brad Pitt, accasatosi con la più giovane e bella Angelina Jolie.
Garry Marshall a 80 anni prosegue il suo cammino nel cinema al femminile, in cui sarebbe ingeneroso voler ritrovare la carica di rottura esilarante dei suoi successi televisivi di altra epoca, Happy Days e Mork e Mindy. Il suo è il tentativo di conquistare un pubblico, prevalentemente femminile, di non più giovanissime, che possano rincuorarsi nel vedere queste grandi personalità del mondo dello spettacolo alle prese con i loro stessi dubbi e insicurezze. Il filo rosso che lega tutte le vicende è la maternità: quella vissuta, quella nascosta, quella agognata. La famiglia può evolversi, ci dice Marshall, diventando una dinamica fluida in continuo movimento, ma la mamma è sempre la mamma, unica e indivisibile. Come dire, concede da una parte spazio a una visione più vicina all’estensione dei diritti civili dei nostri giorni, mentre dall’altra rassicura il proprio pubblico di riferimento più moderato.
La sua natura di film da laboratorio satura la pazienza dello spettatore; stonano le concentrazioni di ogni possibile declinazione della maternità in così pochi nuclei famigliari, così come gli invariabili luoghi comuni sull’essere donna e single. L’induzione alla lacrima non convince, mentre qualche risata Mother’s Day la strappa, grazie al talento comico di Jason Sudeikis e una Jennifer Aniston saggiamente parca di interventi del chirurgo plastico, con delle forme genuine e tempi comici sempre misurati. Ingessata nelle rigidità del suo personaggio, invece, Julia Roberts, la quale dosa con attenzione da saggia imprenditrice le apparizioni al cinema.

Fonte: comingsoon.it

sabato 25 giugno 2016

Agnolotti Saporiti


Ingredienti per 4 persone
per Condire:
100 gr Milza di Vitello
50 cl Vino Rosso
80 gr Burro
1/2 Bicchiere Olio d'oliva
40 gr Lardo
1 Cipolla
1 Spicchio Aglio
1 Rametto Rosmarino
1 Ciuffetto Cerfoglio
1 Ciuffetto Timo
Sale
Pepe
Noce Moscata
Abbondante Formaggio Parmigiano Grattugiato
per il Ripieno:
300 gr Bietole
Sale
100 gr Prosciutto Crudo
100 gr Formaggio Parmigiano Grattugiato
2 Uova
per la Pasta:
400 gr Farina
Sale
4 Uova
per Stendere la Pasta:
Farina
Agnolotti Saporiti


Preparazione:Preparate innanzitutto il condimento.
Tagliate la milza a pezzetti, dopo averla privata della membrana che la ricopre, e mettetela per 30 minuti a macerare in una terrina, coperta con il vino rosso.
Ponete al fuoco, in una casseruola di terracotta, il burro, l'olio e il lardo tritato; fate rosolare, poi unite un trito di cipolla e aglio, rosmarino, cerfoglio e timo.
Insaporite con una buona presa di sale, un pizzico di pepe e un pochino di noce moscata grattugiata.
Non appena le verdure saranno appassite, adagiate nella casseruola la spalla tagliata a pezzettini, lasciandola rosolare a fuoco moderato.
Unite la milza e, non appena anche questa sarà colorita, versate nel recipiente il vino di macerazione.
Coprite la casseruola e lasciate cuocere per almeno 2 ore, aggiungendo di tanto in tanto, se necessario, poca acqua calda.
Nel frattempo preparate il ripieno.
Mondate, lavate e lessate in pochissima acqua bollente salata le bietole; scolatele, strizzatele, tritatele finemente e ponetele in una terrina insieme al prosciutto crudo tritato, a 100 g di parmigiano e alle uova.
Ora è la volta della pasta.
Mettete la farina a fontana sulla spianatoia, salatela, rompetevi nel mezzo le uova e procedete secondo le indicazioni della ricetta base.
Fate quindi riposare la pasta per 30 minuti.
Non appena la carne sarà cotta, estraetela dal recipiente e passatela al tritacarne.
Unitene un quarto al condimento, che farete cuocere ancora per qualche minuto a fuoco dolce, e la parte rimanente al ripieno, rimestando accuratamente con un cucchiaio di legno.
Dopo aver steso la pasta in una o più sfoglie sottili, fate gli agnolotti.
Cuoceteli in acqua bollente salata, scolateli, quindi conditeli con il sugo e il parmigiano.

Fonte: paginainizio.com

mercoledì 15 giugno 2016

'Gli invisibili', il silenzio di George homeless nella Grande Mela


A poca distanza da Franny, dove era un miliardario, Richard Gere torna in un ruolo all’opposto di quello. L’anziano George è un homeless che si aggira alla deriva per le strade della New York invernale. Non ha dove dormire; se rimedia qualche soldo, lo beve; quanto a sua figlia Maggie non vuole avere nulla a che fare con lui. Malgrado possa usufruire di alcuni servizi sociali, non possiede la documentazione per ottenere gli aiuti a lungo termine. La trama degli Invisibili è tutta qui, ma il cineasta indipendente Oren Moverman sa come farla bastare. Non ricordiamo un altro film che esprima così bene la solitudine, lo smarrimento, la monotonia delle giornate degli “ultimi”. La cinepresa inquadra spesso le peregrinazioni del protagonista - tra ospizi per senzatetto e ospedali - inquadrandolo dietro superfici di vetro, grate e cancelli: come a rivelarne la “trasparenza” agli occhi del mondo. Altrettanto espressivo l’ambiente sonoro, dove il fitto vocio circostante fa da contrappunto al silenzio di George.

Fonte: repubblica.it

venerdì 3 giugno 2016

Güeros



La prima cosa che noti, di Güeros, è la sua messa in scena. Che da nervosissima nella sua sequenza iniziale, muta man mano forma ma rimane sempre incisiva, coraggiosa, originale: soprattutto se consideriamo che il regista del film, esordiente, viene dal mondo del teatro.
D'altronde, appare chiaro fin da subito che questo è un film che vuole surfare su tutte le “nuove onde” che ha a disposizione: da quella francese degli anni Sessanta, fino a quelle più recenti che hanno visto nei Jarmush, nei Kaurismaki, nei Linklater i loro campioni più rappresentativi.
In comune con loro, Alonso Ruizpalacios sembra avere, oltre al bianco e nero elegante (e premiato al Tribeca per la miglior fotografia), l'attitudine distaccata, lenta e surreale con la quale racconta storie che raccontano la realtà per frammenti, per impressioni, senza troppo riguardo per il quadro genere e il “messaggio”, ma forse solo in apparenza.
Non c'è infatti una storia fluida e unitaria, in Güeros: anzi c'è, ma è sminuzzata nei tanti piccoli episodi che lo compongono, nelle tante eterogenee micro-avventure vissute dai suoi protagonisti, nei loro spostamenti fisici e nei conseguenti spostamenti narrativi che ne conseguono. Prima c'è Tomas, adolescente irrequito che la mamma, non sopportandolo più, spedisce a Città del Messico dal fratello universitario. Poi, appunto, c'è Federico, che si nasconde dentro casa col coinquilino Santos, e poi ci sono tutti e tre che, spinti dalla voglia di andare a trovare un vecchio rocker forse in fin di vita, escono e affrontano una piccola Odissea attraverso il mondo complesso e stratificato della megalopoli, senza una vera meta, ma con tante piccole mete diverse, raccogliendo per strada anche Ana, la pasionaria di cui Fede è innamorato.
Ecco che allora Güeros è un film sulla ricerca di un Graal sbiadito dal tempo (il rocker amato dal padre di Tomas e Fede) che è un ritorno alle loro radici, è una storia di formazione che riguarda il fratello più giovane e di evoluzione di quello grande, è una storia d'amore e un ritratto generazionale, un mosaico che mira a dare un'idea di quello che è il Messico di oggi.
Tanta roba, forse anche troppa, che però Ruizpalacios (che a Berlino ha ottenuto il premio per la miglior opera prima) gestisce molto bene: senza tirate, senza eccessi, senza spiegoni né troppi vezzi, surfando morbido sull'onda della sua storia e del cinema, con una nonchalance che non è mai distacco, ma sempre voglia di essere leggeri anche quando le cose si fan serie e potenzialmente pesanti.

Fonte: comingsoon.it

domenica 29 maggio 2016

I miei giorni più belli




Paul Dedalus è un personaggio già transitato nel cinema di Arnaud Desplechin. Con quel nome che suona bene in qualsiasi lingua, così come nelle pagine di James Joyce, è un Ulisse che ha sempre saputo che sarebbe tornato un giorno dai suoi viaggi, alter ego del regista francese che ne I miei giorni più belli è un Antoine Doinel che ripercorre tre tappe decisive della sua formazione, della sua giovinezza.
Nella precedente apparizione, in Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle), nel 1996, Dedalus era un trentenne assistente universitario a Parigi, incapace di portare a termine la sua tesi e la relazione con la fidanzata di dieci anni, Esther. Ne I miei giorni più belli li ritroviamo all’inizio del loro rapporto; non che a Desplechin interessi sviluppare un percorso coerente fra i due film. Non più nel presente, ma in un passato che non diventa mai nostalgico, in quanto ancora vivido e a tratti cocente come un continuo rimpianto, Paul rievoca tre momenti chiave: l’infanzia nella periferica Roubaix, il rapporto difficile con la madre depressa, il fratello e la sorella, oltre a un padre sempre in giro per lavoro per mantenere la famiglia; la Russia, primo viaggio del Dedalus Ulisse, prima avventura quasi da film di spionaggio, in piena guerra fredda, sdoppiandosi letteralmente, regalando la sua identità a un ulteriore alter ego; infine Esther, l’amore totale, la donna a cui tenere più della propria stessa vita, un sentimento tanto totalizzante da divenire utopico, in cui i due non riescono mai a “rimettersi veramente dal peso di stare insieme”.
Sono tre momenti dalla durata ben diversa, con l’amore per Esther che prende il sopravvento sul resto, quando Paul lascia Roubaix per studiare da un’antropologa adorata, arrangiandosi senza un soldo, dormendo sui divani dei suoi compagni di università, senza arrendersi di fronte alle difficoltà di un percorso di studi complesso. Le affronta con la stessa sfrontatezza con cui ha sedotto Esther, continuando a portare avanti il rapporto, pure nelle difficoltà della distanza. Un rapporto pieno di pathos e disperazione, leggero come un sorriso per le rispettive scappatelle sessuali e pesante come le lacrime al telefono o la pioggia di un inverno che sembra allontanarli definitivamente. A unirli la passione sfrontata che non fa mai un passo indietro per paura della reazione di chi c’è intorno, che si nutre delle scoperte fatte insieme, delle fragilità condivise, come la disperazione di un attacco di panico per la paura della morte.
Paul ha una sua forma di maturità precoce, che lo porta a ritenere una fine logica il fatto che la madre si sia suicidata quando lui aveva 11 anni, nascondendo una paura tremenda di aver ereditato la stessa disperazione, quella che lo porta a vivere con tristezza la caduta del muro di Berlino, perché la vede come la fine della sua infanzia. Nel raccontare il momento del passaggio all’età adulta Desplechin regala un magistrale film, doloroso e febbrile, sull’istinto a fuggire dall’impietosa unidirezionalità del tempo ancorandosi ai ricordi, declinati come impossibilità di dimenticare. Toccante e universale, racconta di famiglie che si scelgono, di amicizie insidiose come l’amore, di orfani in cerca delle parole giuste; perché è un film di parole, di libri letti, di alfabeti da scoprire.
I miei giorni più belli, a cui preferiamo il titolo originale che suona Tre ricordi della mia giovinezza, viene raccontato attraverso una cornice che ci propone il protagonista - ora interpretato da Mathieu Amalric - sul punto di lasciare dopo molti anni le repubbliche asiatiche ex sovietiche, per tornare a Parigi con un incarico al Ministero degli esteri. Se Amalric incarna con maestria il peso di un uomo gravato da un passato che non sparisce, sono i due ragazzi, Quentin Dolmaire e Lou Roy-Lecollinet, la meravigliosa scoperta del film.

Fonte: comingsoon.it

domenica 15 maggio 2016

Bourne 5


Matt Damon riprende il ruolo di Jason Bourne nel quinto capitolo della saga nata dai romanzi di Robert Ludlum. Per ora sappiamo che il nemico di Bourne avrà il volto di Vincent Cassel e che la storia intreccerà spionaggio e politica in un mondo in cui il controllo delle informazioni dei governi e il diritto alla privacy dei singoli cittadini sono in aperto contrasto.